Educazione

L’educazione è oggi riconosciuta da tutti i partiti come la prima priorità della politica. Siamo tutti d’accordo sul fatto che la sfida principale che la nostra società ha di fronte a sé non è economica, ma educativa.

Dalle aule delle nostre scuole parte tutto, perché al loro interno prendono forma i destini individuali, e quindi il futuro dell’intera società.

Istruzione significa occupazione: ecco perché nell’istruzione è indispensabile investire. Una società sana non può permettersi di avere una percentuale elevata di giovani disoccupati o dipendenti dall’assistenza dello Stato.

Questa parte della popolazione è un giacimento di talenti inutilizzati, che per qualche motivo abbiamo smesso di valorizzare – una dimenticanza della quale come politici dobbiamo sentirci responsabili.

In questi anni abbiamo assistito a un dibattito sempre più malsano sull’educazione. Tutti hanno presentato le loro ricette, dal Dipartimento ai partiti, in un confronto politico che ha progressivamente perso di vista la realtà. Pochissimi si sono chiesti se le loro ricette fossero ritenute adeguate dalle persone che della scuola sono protagoniste, ogni giorno.

I problemi del nostro sistema educativo esistono, ma devono essere affrontati dal basso, ascoltando chi ogni giorno vive nelle aule delle nostre scuole. È esattamente il contrario di quello che sta accadendo oggi in Ticino.

Questa disattenzione ha aumentato sempre di più la distanza fra chi decide sulla scuola e chi la scuola la fa. Uno scollamento pericoloso, che impedisce di ottenere risultati concreti e crea disorientamento nella popolazione.

Tutti in Ticino vogliono migliorare le condizioni di lavoro degli insegnanti. Se davvero vogliamo farlo si tratta ora di discutere insieme ai vari attori della scuola, per capire quali sono i mezzi migliori per raggiungere l’obiettivo.

I problemi ai quali è confrontata la scuola oggi sono tanti. Il sistema è sotto pressione all’interno, a causa dei cambiamenti introdotti negli ultimi anni nei sistemi di insegnamento. Dall’esterno, si aggiungono le sfide di una società in rapida evoluzione, in cui sempre più famiglie sono in difficoltà nel gestire i loro figli, e il clima sociale si fa sempre più esasperato.

Un altro fatto troppo spesso ignorato è che la scuola ticinese non è uguale da Airolo a Chiasso, né è uguale nelle varie sedi di Locarno e ancor meno lo è nelle singole sezioni di ogni sede di un singolo Comune. I bisogni sono differenziati, come da anni ci ripetono i vari attori della scuola. Il quadro è molto complesso e per questo richiede un’analisi integrale, a partire dalla quale sia possibile dedurre quali sono le soluzioni più appropriate da adottare, e in quali ordine di priorità. Purtroppo, oggi accade soprattutto il contrario, con la discussione sui dettagli che la fa da padrone.

Un esempio di dibattito mal posto è quello sull’abbassamento del numero di allievi per classe. Secondo alcuni, una scuola che abbia sezioni con un massimo di 22 allievi avrebbe superato tutti i suoi problemi. La mia esperienza, e quella di chiunque conosca gli istituti scolastici comunali, dice ben altro. Abbiamo sezioni di 17 o 18 allievi che creano problemi, e altre più numerose che lavorano benissimo. Il criterio del numero massimo di allievi non è una formula magica. Molto meglio è puntare sul «principio del bisogno», che ci permette di progettare su misura il livello di sostegno per ogni docente e per ogni bambino, indipendentemente dal numero di compagni che ci sono in classe. Quello di cui abbiamo bisogno non sono parametri fissi, ma risposte flessibili e mirate sui bisogni del bambino.

La stessa rigidità influenza il dibattito sulla figura del docente di appoggio, che oggi è obbligatorio assumere a partire da un certo numero di allievi per classe. Ma siamo sicuri che la necessità di un docente di appoggio dipenda dal numero? Non è sempre così. Ci sono sezioni con meno di 20 allievi alle quali servirebbe disperatamente un docente di appoggio, e altre sezioni con più di 20 allievi in cui la sua presenza è superflua. Un meccanismo rigido come quello in vigore oggi azzera l’autonomia delle direzioni e impedisce loro di lavorare con flessibilità, penalizzando in fin dei conti anche il lavoro degli stessi docenti interessati.

E poi: siamo sicuri che il docente di appoggio, che ha la stessa formazione del docente titolare, sia sempre la persona giusta per rispondere a certi bisogni? Anche in questo caso la realtà ci dice non è sempre così. Spesso sono altre le figure che servono al docente titolare per affrontare problemi che sono fuori dalla sua sfera di competenza professionale. Servono educatori, operatori pedagogici per l’educazione, esperti di comunicazione empatica e ogni tanto anche psicologi. Serve un vero approccio multidisciplinare.  

Questi sono solo tre esempi di meccanismi mal costruiti dalla politica, che oggi inceppano il buon funzionamento della scuola. Una scuola che ha sì il forte bisogno di essere riformata, ma non partendo da risposte generalizzate e preconfezionate.

La tendenza all’omologazione che stiamo vivendo, non solo in ambito scolastico e non solo in Ticino, è preoccupante. Il Cantone tende a uniformare le sue scuole, imponendo le stesse regole ovunque, dalla valle Onsernone al centro di Lugano. La stratificazione sociale, economica e culturale della popolazione di un Comune diventa ininfluente per la struttura dei diversi istituti scolastici. Così non può funzionare.

Restituire autonomia ai Comuni, per quanto riguarda l’organizzazione delle loro scuole, non è solo auspicabile: è una necessità, e porterebbe nel medio termine a migliorare la qualità dell’educazione, senza aumenti della spesa pubblica. È giusto che le regole del gioco, ossia il quadro generale dell’insegnamento, venga definito a un livello superiore a quello dei Comuni: è però essenziale che ogni istituto possa decidere come organizzarsi per gestire al meglio le sue figure professionali e i suoi strumenti pedagogici, tenendo conto della sua realtà socioculturale e della sua situazione finanziaria.

Giuseppe Cotti